1946 – Perché mia madre votò Repubblica

Avevo quattro anni e sette mesi, il 2 giugno del 1946, quando gli italiani scelsero a maggioranza (54,3 per cento dei voti validi) la Repubblica democratica nel referendum istituzionale.

Quel giorno – ne conservo un vago ricordo – accompagnai mamma e papà al seggio elettorale, nella scuola elementare Manzoni di Roma. 

All’uscita, interpellato da un nonnetto che sondava il voto dei “giovanottini”, risposi senza esitare: “Monacchìa!”. 

Ne ottenni un “Bravo!”, implicitamente esteso ai miei genitori. I quali, invece, nel segreto della “gabina” si erano comportati da “giacobini” per cacciare il Re. 

Entrambi, avevano potuto votare per la prima volta nella loro vita, a 39 anni di età, dopo aver attraversato il ventennio della dittatura. 

Nella scheda per l’Assemblea costituente, papà Peppino aveva segnato il simbolo del Partito Repubblicano di Randolfo Pacciardi; mamma Stella – ragionando con la sua testa e non con quella di suo marito – aveva preferito la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi. 

La propaganda referendaria ed elettorale era entrata nei miei giochi di bambino: in casa, radunavo alcuni amichetti, maschi e femmine, davanti a un “palco da comizio” formato da due sedie coperte da una tovaglia e, vociando in un imbuto adattato a megafono, li imbonivo a votare “pella monacchìa e pella voteria”, come mi pareva di aver udito da una “autoparlante” che girava per le strade. 

Allorché, da studente liceale, cominciai a ragionare di politica con ragazzi più grandi di me, capii quale rivoluzione avesse rappresentato nella storia d’Italia l’avvento della Repubblica, e della sua Costituzione democratica, rispetto al vecchio Statuto del Regno (sia nella versione liberale sia in quella totalitaria fascista, parimenti fondate sulla disuguaglianza e sul privilegio), affermando nuovi principi di civiltà:

1) “la sovranità appartiene al popolo”, non più ad un “sovrano” che, “per grazia di Dio” (arbitrariamente presunta) e per diritto di nascita, si considera proprietario dello Stato; 

2) “tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”; di conseguenza “i titoli nobiliari non sono riconosciuti”; 

3) “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano “di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini”;

4) l’Italia “ripudia la guerra…”, mentre fino ad allora aveva avuto un Ministero della Guerra.

Ricordo i racconti che mi faceva mia madre, sugli ostacoli di ordine sociale da lei incontrati sin da quando era bambina: nata in una famiglia di “signori”, di ascendenza baronale, in un paese della Calabria, le fu inibito per superbia nobiliare di frequentare la scuola pubblica con i suoi coetanei, come fortemente desiderava, perché non poteva “mischiarsi con il popolino”; e dovette rassegnarsi a ricevere un’istruzione individuale privata.

Anche per ribellarsi a quella superbia e a quei condizionamenti, mia madre, conquistati finalmente nel 1946 i diritti politici come cittadina, votò “Repubblica”. 

Nicola Bruni

In alto: la mia famiglia in una foto scattata il 24 agosto del 1943. Io sono in braccio a papà, mentre la mamma tiene la sorellina Mariuccia.

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1946 – Cambio della guardia di “pischelli” romani al Quirinale

Cambio della guardia, mimato nell’autunno del 1946 da un gruppo di “pischelli” romani davanti al Palazzo del Quirinale, chiuso dopo la partenza per l’esilio in Portogallo del re Umberto II di Savoia e in attesa dell’elezione del primo presidente della Repubblica: simbolo di una nuova generazione di italiani che si preparava a ricostruire e a governare il Paese, e a fondare e difendere la Repubblica democratica, di cui l’Assemblea costituente stava per delineare la fisionomia. 

Da notare, in questa immagine tratta da una rivista d’epoca, la povertà dell’abbigliamento (in buona parte riciclato) dei ragazzi, i calzoni corti (a risparmio di stoffa) anche in età di scuola media, e gli scarponi acquistati di seconda mano da soldati americani delle truppe alleate di occupazione. Tra loro, c’è anche un bambino ebreo, con la kippah in testa, scampato alla deportazione nei campi di sterminio nazisti, riaccolto nella scuola pubblica e non più discriminato dall’istituzione statale e dai compagni.

In questa compagine di ragazzini, che giocano a fare la guardia al Palazzo della Repubblica, mi riconosco idealmente anch’io, che all’epoca avevo 5 anni e già fantasticavo su come avrei potuto dare il mio contributo alla rinascita dell’Italia.

Nicola Bruni