I “pischelli” di Via Licia con la testa nel pallone

I ricordi della mia infanzia, vissuta nella Roma del dopoguerra, riaffiorano di questi tempi alla mia mente come le ciliegie di stagione. Uno tira l’altro. Ed ecco che mi rivedo bambino di 9-10 anni, tra il 1950 e il 1952: uno dei tanti “pischelli” di Via Licia, traversa di Via Gallia, che in gran parte frequentavano la scuola elementare Alessandro Manzoni, si incontravano all’oratorio della Natività e bazzicavano da soli per le strade del quartiere Latino Metronio.

Con i miei compagni, andavo a giocare “a pallone” in una stradina in terra battuta, senza uscita e senza nome (poi ingoiata da un palazzo), tra Via Gallia e l’attuale Via Alesia. Lì non passava nessuno e potevamo stare tranquilli. La chiamavamo “Dietro al colonnello”, perché si trovava dietro un villino di Via Licia abitato in parte da un colonnello in pensione. 

Il nostro “pallone” era una palletta di gomma, che spesso andava a finire nel giardino del colonnello. Allora, Pietrino Beradinelli, il più agile della compagnia, scavalcava il muretto di recinzione per recuperarla, sfidando le reprimende del padrone di casa, del quale era coinquilino. Talvolta, in mancanza di una palla di gomma, ne facevamo una di stracci annodati. Le porte erano delimitate da sassi. Nessuno di noi aveva scarpe sportive né una maglietta da calciatore. 

Nelle due squadrette che si fronteggiavano, non c’era praticamente distinzione tra attaccanti e difensori perché tutti si muovevano in maniera disordinata attorno alla palla, senza un arbitro che punisse i falli. Se qualcuno cadeva e si scorticava un ginocchio, lavava la ferita ad una fontanella e la disinfettava con la saliva.

Un gioco molto diffuso tra noi ragazzini, e che io praticavo appassionatamente in quegli anni, consisteva nel simulare partite di calcio con le “lattine” (i tappi metallici delle bibite), e un bottone come pallone da mandare a gol. Le squadre in competizione potevano essere formate da lattine di due marche diverse, oppure da lattine in posizione rovesciata con le figurine dei calciatori ritagliate e fissate all’interno. 

A volte, di domenica, io andavo al campo Almas di Via Lusitania per assistere ad una partita di calcio di quarta serie; e poiché i bambini accompagnati potevano entrare gratis, chiedevo gentilmente a un adulto di passaggio, che acconsentiva, la cortesia di farmi da accompagnatore davanti al bigliettaio. 

Sugli spalti, osservavo non solo la partita ma anche il tifo degli spettatori, senza lasciarmi coinvolgere negli immancabili insulti all’ “arbitro cornuto”. E durante l’intervallo tra il primo e il secondo tempo mi intrufolavo nello spogliatoio, dove mi incuriosiva vedere che i calciatori sotto i calzoncini bianchi indossavano un “reggipalle” nero.

Il campionato di serie A, che io e i miei compagni seguivamo in parte alla radio, come tifosi di diverse squadre, aveva un primo riscontro nel pomeriggio di domenica davanti al Bar Clementi di Via Gallia, che esponeva un tabellone con i risultati delle partite presenti nella schedina del Totocalcio. Ogni tanto, quella schedina la giocavo anch’io, sperando e pregando che mi facesse diventare ricco, ma – ahimé – non vinsi mai nulla. 

Non c’era ancora la televisione in Italia. E quando questa arrivò, nel 1954, erano in pochi a possedere un televisore. Perciò, il moderno Bar Gallico, recentemente inaugurato all’angolo tra Via Gallia e Via Licia, allestì una sala tv, che la domenica pomeriggio si riempiva di gente interessata a vedere le partite di calcio. Lo stesso fece il cinema Tuscolo, di Via Britannia, che offriva agli spettatori prima la partita, poi il film. Come dire, per i relativi gestori: “No partita, no party“, cioè senza partita in tv, si chiude.

Nicola Bruni

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Nella foto (da un film del 1942), il “grattacielo” di 10 piani di Via Licia, dove abitavo, 

e il villino del colonnello, visti dall’area dell’attuale Via Alesia.

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