La fabbrica dell’appetito

Molti disoccupati, nella Roma del dopoguerra, piuttosto che chiedere l’elemosina o andare a rubare, si erano inventato un “lavoricchio” dignitoso presso quella che il mio papà chiamava “la fabbrica dell’appetito”. 

Da bambino di 8-9 anni, che gironzolava da solo nel quartiere, potevo osservarne un campionario nel pratone antistante la basilica di San Giovanni e sotto la Porta Asinaria delle Mura Aureliane, a due passi dalla mia casa di Via Licia: venditori di bruscolini, di fusaje (lupini), di noccioline americane, di olive e di liquirizie, rivenditori di indumenti usati, lustrascarpe, riparatori di ombrelli (che gridavano: “Ombrellaio, ombrelli accomodare!”), prestigiatori, chiromanti, giocatori delle “tre carte”, suonatori di fisarmonica, suonatori di “pianino” a manovella con le ruote, trasportatori con carrettino a mano… 

Ma la figura che mi è rimasta più impressa, è quella della donna “mangiafuoco“. Ce n’erano due, madre e figlia ventenne, che davano spettacolo, circondate da una folla di curiosi: ora l’una ora l’altra, si riempiva la bocca di alcol contenuto in una bottiglia e poi, soffiando su una fiaccola tenuta a breve distanza, provocava una grande lingua di fuoco, che sembrava fuoruscisse dalla fauci di una strega. In questo modo – “Grazie, signori! Grazie, signori!” – racimolavano l’occorrente in monetine per “mettere insieme il pranzo con la cena”.

Qualche anno più tardi, dopo la chiusura della “fabbrica dell’appetito”, mi capitò di rivedere più volte quelle due signore, ben vestite (la mamma sfoggiava una bella chioma argentata), uscire dal caseggiato Incis di Via Numidia, traversa di Largo Pannonia, dove abitava un mio amichetto e compagno di classe della scuola media. Si erano, come si suol dire, rifatte una vita.

Nicola Bruni

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Nella foto, Piazza di Porta San Giovanni a Roma nel 1950.