Era una persona gioiosa la mia mamma. Aveva uno spiccato senso dell’umorismo. Manteneva l’allegria in famiglia, anche negli anni di ristrettezze economiche del dopoguerra – quando in casa a Roma non avevamo neppure la radio -, cantando, lanciando battute spiritose e narrando in maniera coinvolgente storielle divertenti a noi bambini.
Le piaceva, in particolare, raccontare aneddoti gustosi di Arena, il paesino delle Serre Calabre dove aveva vissuto fino all’età di 33 anni.
Come quello di una certa Marianna di Balotta, che per far notare al vicinato gli infissi nuovi della sua finestra ne manovrava i chiavistelli con un rumoroso “tiritric-trac, tiritric-trac” e affacciandosi fingeva di rispondere ad una chiamata dicendo in un dialetto “toscaneggiante”: “Chi bolèeete?” (incrocio tra il calabrese “Chi boliti? e l’italiano “Che volete?).
Quello di un bizzarro telegramma spedito da un tale che non era potuto arrivare ad Arena perché bloccato a Soriano da un improvviso maldipancia di suo fratello e manifestava così la sua insofferenza: “Nsurtu doluri trippa fratello Soriano auf auf”.
O quello di due bevitori che commentavano all’osteria la guerra italo-turca di Libia del 1911-12. Diceva il primo: “Ma tu Talia, vidi ca lu Turcu è tuostu, dassancilli chiji rini! Chi li vua, chiji rini?” (Ma tu, Italia, vedi che il Turco è tosto, làsciagliele quelle sabbie. Che ci fai con quelle sabbie?”). Ribatteva l’altro: “Ma puru tu Turcu, vidi ca la Talia è tosta, dassancilli chiji rini! Chi li vua, chiji rini?”.
C’era poi il quadretto dei continui litigi tra due anziani coniugi. La moglie minacciava il marito di andarsene di casa: “Mi ‘nda vaju! Mi ‘nda vaju!”. E il marito, che da persona istruita ci teneva ad esprimersi in italiano, non voleva essere da meno: “Me ne vado io, me ne vado! A piedi non posso, con l’asino non posso: prendo la carozza, prendo la carozza!”. Ma nessuno dei due se ne andava.
C’era ancora la figura di un sempliciotto che magnificava la genialità di suo fratello: “Mio fratello Tuoni, che testa! che testa! A chist’ura è a Roma chi parra cu ‘u Duci” (A quest’ora è a Roma che parla con il Duce).
Da quei racconti noi figli abbiamo ricavato un “lessico familiare”, fatto per lo più di espressioni in dialetto calabrese, da tirar fuori al momento opportuno. Del tipo: “No ssacciu pecchì” (non so perché), come disse una sarta ottantenne che non usava gli occhiali e non riusciva più a infilare l’ago per cucire; “Tantu Rosina tantu Peppina”, come si giustificò, per dire che non c’era differenza, una nonnetta che aveva scambiato i nomi delle sue nipoti; “Scinditìndi ca predicasti” (scendi giù ché hai predicato abbastanza), come intimò una contadina ad un predicatore quaresimale che stava mandandola troppo per le lunghe dal pulpito.
Il naturale buonumore della mia mamma traeva linfa dalla sua fede cristiana, che l’ha sostenuta anche nei momenti più difficili e che ha saputo trasmettere ai tre figli. Dei quali era talmente orgogliosa che, parlando di loro, amava ripetere la frase famosa di Cornelia madre dei Gracchi: “Questi sono i miei gioielli!”.
Nicola Bruni