La bomba di Via Rasella

e l’enorme rappresaglia nazista alle Fosse Ardeatine nel marzo del 1944.

Via Rasella, la lunga e stretta strada in salita del centro di Roma che conduce a Palazzo Barberini, dove si svolse l’episodio più discusso della Guerra di liberazione nazionale. Neppure una targa a ricordo dello storico evento. Solo le scalfitture dei proiettili sparati dai nazisti contro le finestre, sulla facciata di un edificio. Qui, davanti al cinquecentesco Palazzo Tittoni, il 23 marzo 1944, alle ore 15,52, una squadra di partigiani membri dei Gap (Gruppi di azione patriottica, collegati al Partito comunista) assaltò una colonna in marcia di 160 uomini armati dell’esercito tedesco occupante.

    Fu fatta esplodere una carica di 18 chili di tritolo nascosta in un carretto della nettezza urbana, innescata con una miccia di 50 centimetri dal finto spazzino Rosario Bentivegna, che provocò un macello; poi altri tre partigiani, sbucati alle spalle dalla traversa Via del Boccaccio, lanciarono quattro bombe a mano sui superstiti e si coprirono la ritirata a colpi di pistola.

    Per effetto di quell’attacco – secondo le informazioni riportate nel libro “Achtung Banditen”, dello stesso Bentivegna, edizione 2004 – morirono non 33, come si disse, ma 42 soldati sudtirolesi del Polizeiregiment “Bozen” (26 all’istante, 6 più tardi in ospedale, uno l’indomani mattina e 9 nei giorni seguenti) e molti altri rimasero feriti. Persero la vita anche un ragazzo di 13 anni e un operaio.
    La furibonda reazione dei nazisti, che dopo l’esplosione si misero a sparare all’impazzata, fece subito altri 3 morti e 9 feriti, e a meno di 24 ore di distanza sfociò in una smisurata rappresaglia: il massacro di 335 italiani incolpevoli alle Fosse Ardeatine.

    La ritorsione fu decisa dal comando tedesco nella serata del 23 marzo, con l’ordine impartito al tenente colonnello delle SS Herbert Kappler di fucilare 320 italiani, 10 volte il numero dei militari del Bozen morti fino a quel momento: ordine che non prevedeva la sua revoca nel caso in cui gli autori dell’attentato si fossero consegnati, e che per eccesso di zelo fu eseguito con l’aggiunta di 15 vittime, fin dalle ore 2 pomeridiane 10 criminali comunisti-badogliani del 24 marzo.

    Nessun preannuncio pubblico fu dato della rappresaglia, e nessun manifesto fu affisso per intimare agli attentatori di costituirsi, come è stato accertato in sede giudiziaria, contrariamente a quanto sostenuto da presunti testimoni in polemica con i gappisti.

    I romani furono informati dell’uccisione di 32 uomini della polizia tedesca in Via Rasella, attribuita a banditi scellerati comunisti-badogliani, e della fucilazione già eseguita di 10 criminali comunisti-badogliani per ogni tedesco assassinato, solo a mezzogiorno del 25 marzo, da uno scarno comunicato del quotidiano Il Messaggero. Ma quando, dopo la liberazione di Roma, fu possibile riesumare i corpi delle vittime, interrate in una galleria delle cave di tufo della Via Ardeatina fatta crollare con la dinamite, se ne contarono 335, e si scoprì che tra loro, accanto a prigionieri antifascisti, partigiani e militari prelevati dalle carceri di Via Tasso e di Regina Coeli, c’erano 75 ebrei, un sacerdote cattolico, detenuti comuni presi a caso, e perfino un ragazzo di 14 anni.

    Da allora, quei morti sono onorati come martiri della libertà in un solenne mausoleo eretto sul luogo dell’eccidio.


Nicola Bruni



Nella foto, passanti rastrellati dai militari tedeschi davanti a Palazzo Barberini dopo l’attentato di Via Rasella, il 23 marzo 1944.