Come risorgemmo dalle macerie della guerra

Il 4 aprile 1949 l’Italia firmò il Patto Atlantico ed entrò a far parte, come Stato fondatore, della NATO con Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Portogallo, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Norvegia e Islanda; alleanza alla quale avrebbero aderito in seguito altri 18 Paesi.

Erano passati appena quattro anni dalla fine di una disastrosa guerra perduta e due dall’umiliante Trattato di pace di Parigi, che imponeva al nostro Paese il disarmo e la smilitarizzazione di una fascia di 20 chilometri ai suoi confini terrestri, e l’Italia – ancora esclusa dall’ONU, fino al 1955 – riacquistava la sovranità sul proprio territorio, garantita dalla ricostituzione di proprie forze armate e da un’alleanza politico-militare che l’avrebbe difesa, nella Guerra Fredda in corso, dalla minaccia espansionistica dell’Unione Sovietica di Stalin.

Poche settimane prima, il 28 febbraio del 1949, era stato varato con legge dal Parlamento il “Piano Fanfani Ina-Casa” per l’edilizia popolare, che avrebbe portato alla costruzione di 335mila alloggi con 2 milioni di vani nei successivi 14 anni.Ma già dal 1948 ferveva la ricostruzione dell’Italia dalle macerie della guerra (case, strade, ponti, ferrovie, acquedotti, linee elettriche…), avviata dai Governi De Gasperi con gli imponenti aiuti americani del Piano Marshall, che in quattro anni avrebbero assunto una consistenza di 770 miliardi di lire, tra merci donate e prestiti finalizzati.

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In quella primavera del 1949, io frequentavo la seconda elementare a Roma in una scuola – Alessandro Manzoni – sovraffollata e funzionante a doppio turno, sulle cui pareti campeggiavano manifesti per avvertire i bambini del pericolo delle bombe inesplose, da non toccare.In alcuni quartieri della città, come San Lorenzo e Tuscolano, si ergevano i ruderi di palazzi sventrati dai bombardamenti.

Nella mia parrocchia della Natività, in Via Gallia, si distribuivano alle famiglie bisognose pacchi alimentari della POA, la Pontificia opera di assistenza.

Nel mio palazzo di Via Licia c’erano sei famiglie costrette alla coabitazione, due a due, in uno stesso appartamento, mentre nel quartiere (Latino-Metronio) erano in funzione numerosi cantieri edili per la costruzione di nuove case. E là dove, nei pressi della mia Via Licia – come nella “Via Gluck” di Celentano -, c’era un prato verde utilizzato da noi bambini per giocare a palletta e a pallone, sarebbe sorta presto una nuova scuola, la “Teresa Confalonieri”.

Insomma, Roma e l’Italia si stavano rimettendo in piedi, e io – al pari dei miei compagni – sognavo di darle “da grande” un valido contributo.

Nicola Bruni

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Nella foto, i lavori di ricostruzione postbellica del ponte di Ariccia (Roma) della strada stale Appia (1946-1948.

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