È accaduto il 2 febbraio 2023 a Roma sulla Metro A intorno a mezzogiorno, ma non mi sono accorto di nulla. Tornato a casa, alle 14,50 ricevo la telefonata di uno sconosciuto con accento straniero dell’Est Europa, che dice di aver trovato dei miei documenti in un cestino dei rifiuti nella stazione metro Colli Albani. Quella dalla quale ero uscito all’aperto.
Faccio una verifica e scopro che mi manca un portadocumenti di plastica che conteneva la mia tessera dell’Ordine dei Giornalisti, la tessera di un supermercato, 140 euro e un biglietto con i miei recapiti telefonici. L’avevo messo, come al solito, nella tasca destra dei pantaloni, coperta da un giaccone. Qualcuno me l’ha sfilato, probabilmente, mentre mi accingevo a scendere dal treno, perché prima, per tutto il viaggio dalla stazione Flaminio, ero stato seduto.
Intuisco che il ladro ha intascato i miei soldi e abbandonato i documenti. Informo mio figlio Fabio, il quale avanza il sospetto che lo stesso telefonista sia il ladro, e mi raccomanda di stare attento.
Il tizio al telefono mi ha detto che avrebbe lasciato i miei documenti al gabbiotto del personale della stazione Colli Albani. Raggiungo di corsa il luogo indicato, a 500 metri da casa mia, ma il gabbiotto è chiuso. Allora richiamo il numero registrato sul mio smartphone, e dopo pochi minuti compare un uomo proveniente dai binari che mi domanda: “È lei che ha perso i documenti?”. Io tiro fuori quello che è rimasto nella bustina ritrovata, e gli rispondo: “Non li ho persi, mi hanno rubato i soldi”. Lui dice: “Dei soldi non so nulla”. È un giovane robusto, di età compresa fra i 35 e i 40 anni, capelli castani ricci e un viso cordiale incorniciato da una barbetta; indossa un giaccone verde scuro. Sembra una brava persona.
Naturalmente io lo ringrazio, stringendogli la mano, per avermi fatto recuperare la tessera di giornalista. Ma lui non si accontenta del ringraziamento e mi chiede una ricompensa. Io, però, non ho con me neppure una monetina e non posso dargli nulla. Quello insiste, implorandomi: “Anche solo due euro. Posso venire sotto casa tua e vai a prendere i soldi”.
In quel momento mi chiama al telefono mio figlio, per avere notizie. Lo informo della richiesta di una ricompensa, e allora lui, sospettando che si tratti di un tentativo di estorsione mi grida: “Chiama la polizia!”. Sentendo nominare la polizia, il mio interlocutore rinuncia ad insistere, mi saluta e se ne va in direzione dei binari, scavalcando i tornelli.
Quell’uomo mi ha fatto pena. Se è stato lui il ladro, ma non ne sono sicuro, penso che potrebbe essere stato spinto a rubare dal bisogno. Se invece è un poveraccio che si è prestato a restituirmi il documento trovato in un cestino di rifiuti, si sarebbe meritato una ricompensa che non ho potuto dargli.
Comunque, io ho perdonato il mio scippatore, nel senso che non provo un risentimento contro di lui, e anzi ho pregato affinché quella persona si converta e cambi vita. Questo non significa che i ladri non debbano finire in carcere se vengono individuati e arrestati. Il perdono è personale, la giustizia compete allo Stato, se riesce ad esercitarla. Peraltro, una mia eventuale denuncia “contro ignoti”, corredata da un semplice sospetto, non avrebbe avuto alcun seguito.
Nicola Bruni