Gli alberi maestosi di castagno che ho visto sporgere, in Calabria, sui tornanti della strada tra Dasà e Arena hanno riportato alla mia mente un dolce ricordo di infanzia. Di quando – io e alcuni “cotrari” intorno ai 10 anni come me – andavamo a caccia di castagne e ne abbattevamo i ricci a sassate con tiri di fionda. Poi spaccavamo i ricci e ne estraevamo il frutto immaturo. Mangiavamo le castagne ancora acerbe, ma con il gusto di assaporare una conquista. Eravamo nel mese di settembre dei primi anni ’50 del secolo scorso, allorché le scuole dopo le vacanze estive si riaprivano ad ottobre.
Io, che provenivo da Roma ed ero ospitato a Dasà nella casa di una zia paterna, ero l’unico della compagnia a parlare in italiano, ma avevo imparato abbastanza del dialetto calabrese per capire “chiju chi dicìano li cumpagni”.
Il nostro gioco preferito era quello del calcio. Ambientavamo di solito le nostre partitelle nella radura pianeggiante di un uliveto appena fuori del paese. Alcuni giocavano a piedi nudi, anche perché andare scalzi, di quei tempi a Dasà, era un’usanza diffusa nelle famiglie di contadini.
Tra i piccoli calciatori c’era un bulletto, la cui figura è rimasta impressa nella mia mente: si esprimeva a parolacce, raccontava “cuosi porciei” (cose sconce) e per darsi un’aria da adulto spregiudicato si esibiva nel calciare la palla tenendo il pisellino ben in vista fuori dei calzoncini.
A volte, mi domando se campi ancora quell’ex bulletto, mio coetaneo, e nel frattempo abbia rimesso, oltre che il pisellino, anche la testa a posto.
Nicola Bruni