La “pipinara” di Via Licia 76

Il palazzo di dieci piani di Via Licia 76 (oggi 54) a Roma, dove ebbi la ventura di nascere il 26 ottobre del 1941, nel primo decennio del dopoguerra era popolato da una “pipinara” di bambini di ogni età. Di conseguenza, vigeva a tutte le ore una normale “caciara”, condita di strilli, urla e pianti. E dalle scale si udivano spesso i rimbombi delle corse in discesa con salto degli ultimi 6 scalini di ogni rampa, divenute lo sport preferito di noi maschietti: “tu-tùn, tu-tùn, tu-tùn, tu-tùn, bùum”.

A differenza della rigida separazione che vigeva a scuola, in chiesa e all’oratorio, tra maschi e femmine facevamo spesso comunella in alcuni giochi all’interno delle abitazioni, come la recita di brevi commedie degli equivoci. Ricordo quella della donna di servizio che, mandata a comprare la “conserva”, per un fraintendimento tornava a casa portando una “serva” con un fazzoletto in testa annodato sotto il mento. E noi ridevamo.

Tra le bambine mie coetanee – Carla, Lia, Marisa, Rosanna – io cercavo di discernere quale mi sarei potuto sposare da grande, ma purtroppo nessuna di loro corrispondeva al mio ideale di moglie, e questo mi preoccupava, perché il mio orizzonte di conoscenze femminili all’epoca non travalicava le mura del palazzo.

Con i maschi – Maurizio, Lillino, Roberto, Tonino – i giochi prevalenti erano quelli delle “lattine” (tappi metallici delle bibite), utilizzate per simulare partite di calcio, gare ciclistiche e battaglie tra eserciti, e quello delle palline (di vetro o di creta) da mandare in buca su terreno non asfaltato.

Ma quando Tonino ci invitata a casa sua, si apriva per noi il mondo dei balocchi, fatto di trenini elettrici, macchinette, montagne russe, teatro dei burattini e giocattoli di ogni genere, munifici regali di uno zio ricco e famoso, il tenore Beniamino Gigli.

C’era poi lo scambio delle figurine dell’album degli animali, con il classico “Ce l’ho, ce l’ho, mi manca”.

Noi ragazzini venivamo spesso mandati dalle nostre mamme a fare commissioni nei negozi dei dintorni. Il più frequentato era la “drogheria” del Sor Luigi in Via Illiria, un piccolo emporio dove si potevano acquistare pane, pasta, fagioli secchi, formaggini Bebè, mortadella, pesce stocco essiccato, caffè, ma anche saponette e soda per lavare i piatti. Alla latteria si comprava il latte della Centrale in bottiglie di vetro sigillate con la stagnola; alla bottega del vinaio il vino e l’olio si prendevano sfusi.

In Via Licia funzionava il “Vapoforno” di Pascucci, dove portavamo a cuocere gli arrosti e le crostate. Un giorno Fabrizio, un “roscetto” che abitava al decimo piano, tornava a casa in ascensore con un tegame coperto da uno strofinaccio. “Sono patate?”, gli domandai. “Erano”, rispose: se l’era mangiate quasi tutte dopo essere uscito da quel negozio.

Nicola Bruni

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Nella foto (tratta dal film “La bisbetica domata” del 1942), il mio palazzo di Via Licia,

nei pressi di Porta Metronia, con un campo sterrato antistante, oggi Via Alesia.