Il transatlantico

Tengo esposto su uno scaffale della mia libreria come una reliquia di infanzia questo modellino di latta di un transatlantico, che acquistai a Roma da un giocattolaio di Via Gallia nel 1953, quando avevo 12 anni. È lungo 35 centimetri e pesa 150 grammi. 

Funziona ancora, muovendosi in acqua con la propulsione di un “turbo” caricato da una chiavetta che fa girare l’elica posta a poppa dello scafo. Io lo mettevo a navigare nella vasca da bagno della vecchia casa di Via Licia 54, e spostando il timone potevo modificarne la direzione.

Il modellino ha due fumaioli, due file di nove scialuppe di salvataggio, alcune centinaia di cabine per i passeggeri e, nella parte superiore, addirittura due piste di atterraggio per un piccolo aereo e un elicottero.

Era uno dei pochi giocattoli veri e propri in mio possesso (infatti, giocavo prevalentemente con le “lattine”, i tappi metallici delle bibite).

Mi costò 950 lire, tirate fuori con un sospiro dal mio “dindarolo” e che avevo accumulato risparmiando molti biglietti da 25 lire del tram 18 che avrei dovuto prendere per andare alla scuola media Pascoli nei pressi del Colosseo e poi tornare a casa. Quelle 50 lire giornaliere, che costituivano di fatto la mia unica paghetta, erano frutto per metà di un’azione spericolata (all’andata, dopo le ore 8, viaggiavo letteralmente “attaccandomi al tram” sovraffollato, con i piedi sul predellino esterno) e per l’altra metà frutto del sacrificio di un lungo percorso “a fette” (come si diceva in romanesco storpiando l’inglese “feet”, piedi) per il ritorno.

Perché lo acquistai? Perché a quel tempo c’era il mito delle grandi navi transoceaniche che trasportavano masse di emigranti italiani negli Stati Uniti, in Argentina o in Australia. E proprio verso Australia sarebbe partito un mio cugino calabrese, di nome Vincenzo, che era venuto a salutarci a Roma prima di espatriare dall’Italia. 

Nell’occasione, Vincenzo lasciò in regalo 1000 lire, da dividere per tre, a noi cuginetti romani. E la mia quota di quel regalo contribuì all’acquisto del favoloso transatlantico, che già da tempo avevo adocchiato con desiderio nel negozio di giocattoli.

Inoltre, pochi mesi prima, ero rimasto impressionato da un documentario della Settimana Incom, proiettato al cinema Tuscolo di Via Britannia, sul viaggio inaugurale da Genova a New York del modernissimo transatlantico Andrea Doria, orgoglio dell’Italia che stava risorgendo dalle rovine della guerra.

In precedenza, mi divertivo a far galleggiare nella mia vasca da bagno alcune barchette di carta, accompagnando il gioco con due canzoncine che mi aveva insegnato la mamma.

La prima diceva: “La barchetta in mezzo al mare / è diretta a Santa Fè / dove va per caricare / mezzo chilo di caffè. / La comanda un capitano / dalla barba rossa e blu, / fuma un sigaro toscano / che proviene dal Perù”.

La seconda: “C’era una volta un piccolo naviglio, che non sapeva, non sapeva navigar. E dopo una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette settimane, il piccolo naviglio navigò”.

Il bello fu che, a differenza del “piccolo naviglio”, il mio piccolo transatlantico, appena messo in acqua, navigò subito.

Nicola Bruni