Non è vero che un Parlamento meno numeroso sia più efficiente, poiché il grosso del lavoro legislativo lo fanno le Commissioni permanenti di Camera e Senato, nelle quali devono essere rappresentati in proporzione tutti i gruppi e devono esserci persone competenti negli ambiti specifici. Il loro funzionamento è previsto dall’articolo 72 della Costituzione: “Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale. Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l’urgenza”.
Le Commissioni possono operare in sede referente (si studiano i problemi posti da un disegno di legge e si riferisce con una o più relazioni all’Aula), consultiva (si dà un parere su un ddl di un’altra Commissione), redigente(si delibera sul ddl articolo per articolo, demandando la votazione complessiva all’Aula) e legislativa o deliberante (si vota il ddl articolo per articolo e nel suo complesso, senza rinvio all’Aula).
Nonostante la drastica riduzione del numero dei parlamentari, le Commissioni permanenti resteranno, giustamente, 14 in ciascuna Camera (a Montecitorio: 1. Affari costituzionali, Presidenza del Consiglio e Interni; 2. Giustizia; 3. Affari esteri; 4. Difesa; 5. Bilancio, Tesoro, Programmazione; 6. Finanze; 7. Cultura, Scienza e Istruzione; 8. Ambiente, Territorio e Lavori pubblici; 9. Trasporti, Poste e Telecomunicazioni; 10. Attività produttive, Commercio e Turismo; 11. Lavoro pubblico e privato; 12. Affari sociali; 13. Agricoltura; 14. Politiche dell’Unione europea).
Il problema è che con il “taglio”, sulla base dei regolamenti che non sono stati modificati, non tutti i gruppi – specie quelli piccoli e medi – riuscirebbero ad esservi rappresentati: se al Senato è previsto che uno stesso senatore possa essere assegnato a tre Commissioni permanenti (favorendo così la presenza delle minoranze nelle diverse Commissioni, ma con un rallentamento del processo legislativo), alla Camera i deputati non possono essere designati per più di una Commissione, e ciò farebbe venir meno in molti casi la rappresentanza dei partiti medi e piccoli con vantaggio numerico per quelli maggiori.
Inoltre, come ho già detto, nelle Commissioni c’è bisogno di persone competenti, altrimenti vengono fuori leggi sballate. E se si taglia di un terzo il numero dei parlamentari, poiché molti degli eletti (scelti dai capi partito tra i politici più fidati) sono incompetenti, si rischia di non avere un numero sufficiente di persone che sappiano scrivere i testi legislativi e capire certi cavilli che per interessi di parte a volte ci vengono infilati da qualche “manina”.
Per lo stesso motivo, non è garantito che il “taglio” dei parlamentari si abbatta sui corrotti, i mediocri e i fannulloni assenteisti, poiché la scelta degli eletti non dipende dagli elettori ma dalla collocazione in lista dei candidati, che non sempre privilegia i migliori, e dalle opzioni di rinuncia dei leader presentati in più circoscrizioni, che fanno subentrare rincalzi spesso sconosciuti.
Perciò, la vera questione da risolvere non è la riduzione del numero dei parlamentari, ma il modo in cui vengono eletti. Se la scelta non dipende dai voti di preferenza degli elettori, i candidati e poi gli eletti non hanno nessun interesse a spendere soldi ed energie personali per intrecciare una rete di relazioni con la base elettorale nel territorio, perché ad attrarre voti “ci pensa il partito”: l’importante per loro è avere la fiducia e la stima del capo partito, dal quale dipende la possibilità di elezione o rielezione. Di qui lo scollamento che si verifica tra i rappresentanti eletti in Parlamento e i cittadini da loro politicamente rappresentati, che spesso neppure conoscono chi vanno a votare. Nella cosiddetta Prima Repubblica, che manteneva i voti di preferenza, non era prevalentemente così.
Nicola Bruni