“So’ americano, so’ americano”, ripeteva il personaggio di Nando Moriconi intepretato in caricatura da Alberto Sordi nel fim “Un americano a Roma“, del 1954.
Confesso che appartengo anch’io a quella generazione di italiani che negli anni del dopoguerra sono stati “americanizzati” dall’influenza culturale esercitata nel Bel Paese da film, telefilm, cartoni animati, fumetti, canzoni, romanzi, miti, mode e messaggi pubblicitari provenienti dagli Stati Uniti.
Dagli americani, in particolare, ho imparato fin dalla tenera età a giocare ai cow-boy, masticare chewing-gum, ingoiare pop-corn, bere Coca-Cola, indossare jeans e, soprattutto, a dire okei.
Da adolescente, sono cresciuto hollywoodiano ridendo con Stanlio e Ollio, sbellicandomi con Jerry Lewis, cavalcando alla Gary Cooper, sparando come John Wayne, camminando alla Sterling Hayden, bevendo come James Stewart, tagliandomi i capelli alla Marlon Brando, acclamando l’arrivo dei nostri che ammazzavano tutti gli indiani cattivi nei film del Far West. E poi, ancora, ascoltando il jazz, ballando il rock, cantando pop-song, leggendo Hemingway, sognando Marilyn Monroe, fumando Marlboro, fischiettando la Marcia dei Marines, coltivando appassionatamente il mito kennediano della Nuova Frontiera.
A un certo punto, però, ho deciso di dire “basta”: quando dagli States è stato importato in Italia il macabro carnevale di Halloween. Mi sono domandato: “Io, travestirmi da scheletro, da zombie o da vampiro? Ma che ci ho scritto Jo Condor?”.
Nicola Bruni