I pantaloni lunghi della scuola media

Questa foto, del maggio 1955, ritrae la mia classe Terza A della scuola media Giovanni Pascoli di Roma, nella nuova sede di Via Sibari (Porta Metronia), con il preside Giovanni Marotta e l’insegnante di lettere Delia Brusa Dainelli. Io, allora tredicenne, ero il terzo da destra in basso, vestito con giacca, cravatta e pantaloni lunghi. 

Quella giacca e quei pantaloni me li ero comprati con i soldi di una borsa di studio di 6700 lire che mi era stata assegnata dal mio istituto all’inizio dell’anno scolastico, in base a criteri di merito e di basso reddito familiare, grazie alla rendita del lascito di un benefattore.

Dopo quell’acquisto, dismessi i calzoni corti allora di moda per i “giovanottini”, presi l’abitudine di presentarmi in classe vestito da “giovanotto”, indossando pantaloni lunghi o “alla zuava” (stretti e abbottonati alle caviglie) e una cravatta sotto una giacca o un golf di lana.

A quel tempo le classi miste non erano state ancora inventate, e almeno un terzo dei miei compagni erano ripetenti o pluripetenti, più alti di me e già con il pomo d’Adamo sotto il mento, perché la scuola media era molto selettiva, e bocciava con facilità, a cominciare dal “terrificante” esame di Stato di ammissione che si aggiungeva a quello di licenza elementare.

Io, pur provenendo da una famiglia che non aveva altri libri in casa, fatta eccezione per un dizionario Melzi del 1934, stimolato dalla mia mamma che diceva di voler fare dei suoi tre figli dei “pezzi grossi”, mi ero applicato allo studio con una forte volontà di successo. 

Dovetti confrontarmi con una scuola molto esigente, competitiva, nozionistica e retorica, che proponeva il latino come materia principale e l’Iliade e l’Odissea come testi di riferimento per i valori della vita. 

Riuscii a diventare il primo della classe, a prendere la media dell’otto, con nove in latino e in matematica, e a vincere per concorso, nello stesso anno, un’altra borsa di studio, di 30.000 lire, del Ministero della Pubblica Istruzione.

A casa, un appartamentino di due camere, io facevo i compiti senza alcun aiuto sul tavolo della cucina, mentre la mamma, che lavorava come magliaia, manovrava rumorosamente la macchina di maglieria, e la sorellina e il fratellino giocavano. Poi, mi alzavo presto la mattina per concentrarmi con più tranquillità sui libri.

In quegli anni, noi non avevamo né frigorifero né telefono né televisore (la radio arrivò nel 1953) né lavatrice. Il latte, la sera, lo mettevamo sul davanzale di una finestra per tenerlo al fresco. E per le comunicazioni telefoniche ci servivamo dell’apparecchio a muro di una famiglia di amici della porta accanto, con la quale dividevamo le spese dell’abbonamento.

Fino a giugno del 1954, la scuola Pascoli era ospitata in un ex convento nei pressi del Colosseo, e per andarci ogni mattina, dalla casa di Via Licia, dovevo prendere in Via Gallia il tram 18, che era sempre strapieno; allora io ne approfittavo per non pagare il biglietto viaggiando “attaccato” alle maniglie esterne della porta d’entrata, con i piedi sul predellino. Al ritorno, “staccandomi” dal tram, mi facevo una camminata di circa 2 chilometri, e le 25 lire del biglietto me le tenevo come paghetta… in tempi di micragna.

Nicola Bruni