A casa mia, non c’è Natale senza presepe: lo si è fatto sempre fin dalla mia nascita, a Roma, nel lontano 1941. Quando ero bambino, lo faceva il mio papà, inchiodando tavole e pezzi di sughero per costruire le montagne e la grotta della Natività.
Di quei primi presepi del tempo di guerra, mi sono rimaste alcune statuine di creta, che continuano a popolare la mia scenografia natalizia: tra queste, una donnetta che porta sulla testa un sacco di farina.
Eccolo qui, il mio presepe. L’ho fatto semplice e povero, come semplice e povera fu la scena reale. Non vi ho messo le luci, perché al tempo del censimento di Cesare Augusto non c’era l’elettricità. Non vi ho messo la neve, perché non risulta che nella Notte Santa nevicasse. Non vi ho messo le montagne, perché alla mia età preferisco camminare in piano.
Non ho aspettato lo scoccare della mezzanotte del Santo Natale per porre nella mangiatoia il Bambino Gesù, che è già nato più di 2000 anni fa e che dovrebbe rinascere ogni giorno nei nostri cuori. E ho mostrato la rappresentazione natalizia alla mia sposa Elina, che per la seconda volta quest’anno la guarda e la benedice dal Paradiso.
Ho collocato il presepe nella stanza di ingresso per far capire subito agli scarsi visitatori della mia dimora – in particolare, ai miei nipotini – che a casa mia si festeggia il Natale di Gesù, non l’arrivo di Babbo Natale, non l’Albero della cuccagna, carico di doni e splendente di luci e di globi luccicanti.
Ho rispetto per l’Albero di Natale; quando i miei figli erano piccoli, lo facevo anche io; ma lo sento come un simbolo estraneo alla mia identità culturale, poiché quando io ero bambino, a casa mia, non si faceva e i doni li portava la Befana.
Nicola Bruni