Che cosa farò da grande

mi domandavo con insistenza quando ero piccolo.

Mi raccontava la mia mamma che da bambino ero spesso tormentato dall’interrogativo su che cosa avrei fatto da grande. Un giorno mi decisi, forse perché avevo il desiderio inappagato di una pastarella: “Da grande farò il pasticciere. Così, le pastarelle, un po’ me le vendo e un po’ me le mangio”.

Un altro giorno, tornando dalla casa del mio amichetto Tonino, che aveva un vero e proprio sistema ferroviario di trenini elettrici ricevuti in regalo da uno zio ricco e famoso, comunicai alla mamma che, invece del pasticciere, avrei fatto il trenista, alla guida di sfreccianti locomotive.

Tra la quarta e la quinta elementare, alla “Manzoni” di Roma, cercavo di individuare una professione che potesse far ricordare il mio nome nei libri di scuola. Sarei potuto diventare un celebre poeta, come Leopardi: perciò cominciai ad esercitarmi nella composizione di versi con parole auliche, del tipo “odo augelli far festa”. Oppure un grande “pensatore”, come Giuseppe Mazzini, capace di ideare formule supreme sul modello “Dio Patria Famiglia”. Oppure un condottiero di eserciti, come quel re Filippo II di Macedonia che aveva inventato la formidabile “falange macedone”: perciò, riflettevo su che cosa avrei potuto escogitare io mentre giocavo alla guerra con le “lattine”.

Nei primi anni della scuola media, sotto l’influenza di una cultura storico-letteraria prevalentemente guerresca, puntai decisamente alla conquista dei gradi di generale dell’Esercito. Conseguito il diploma di licenza, avrei frequentato il liceo nel collegio militare “Nunziatella” di Napoli, come mio cugino Antonio, che ogni tanto veniva a trovarmi a Roma indossando un’elegante divisa da cadetto; poi mi sarei iscritto all’Accademia di Modena.

Compiuti, però, i 13 anni, mi impartii un contrordine: “Macché disciplina militare! Io voglio essere un libero cittadino, partecipare attivamente alla vita democratica, percorrere il ‘cursus honorum’ e magari, alla fine, diventare Presidente della Repubblica”. E cominciai a interessarmi di politica.

Approdato al liceo classico, mi orientai verso il giornalismo, e mi misi a praticarlo come direttore del giornale studentesco dell’Augusto. D’altra parte, mi sarebbe piaciuta anche la carriera diplomatica, per diventare un ambasciatore dell’Italia all’estero. Perciò, dopo la maturità mi sarei iscritto alla facoltà di Scienze politiche; nel frattempo mi sarei dovuto procurare una “lady di rappresentanza”, che mi facesse fare bella figura nei ricevimenti ufficiali.

Più tardi ci ripensai, preoccupandomi della mia futura famiglia, e della vita da migranti avrei fatto fare a mia moglie e ai miei figli dovendo spostarmi come ambasciatore ora in una capitale ora in un’altra. Dunque, ambasciatore no, giornalista sì.

Dopo l’esame di maturità mi iscrissi al corso di laurea in Lettere moderne: non per fare l’insegnante, ma per essere, come giornalista, una persona di cultura.

Solo dopo aver conseguito la laurea, a dicembre del 1965, il mio amico Antonio Collareta mi convinse a provare anche l’insegnamento. Presentai una trentina di domande di supplenza alle scuole medie di Roma e provincia, e fui subito chiamato per una sostituzione di maternità in un istituto di Palestrina.

Solo allora scoprii che quella del “prof”, in mezzo a “fanciulline e garzoncelli scherzosi”, era la strada della felicità per la mia vita, e mi dedicai con entusiasmo all’attività di formazione delle nuove generazioni.

Nicola Bruni

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