Il generale che si fece frate cappuccino

Padre Gianfranco Maria Chiti in via di beatificazione.

Dice una vecchia canzone popolare: “Co ’sta pioggia e co ’sto vento, chi è che bussa al mio convento?”.

Il 30 maggio del 1978, a bussare al convento dei Frati cappuccini di Rieti, si presentò un ex generale dei Granatieri, di 57 anni, un uomo alto e robusto, “tutto d’un pezzo”, veterano della Seconda guerra mondiale. Si chiamava Gianfranco Maria Chiti, aveva da poco dismessa l’uniforme militare e chiedeva umilmente di poter indossare il saio francescano. Fu accolto nel convento a braccia aperte, rivestì la “nuova divisa”, si fece crescere una barba bianca e, dopo quattro anni di formazione, fu ordinato sacerdote dal vescovo di Rieti con il nome di padre Gianfranco Maria da Gignese (il suo paese natale, in Piemonte). 

È interessante sapere che cosa avesse fatto nel bene e nel male il nuovo consacrato prima che maturasse la vocazione religiosa, ma bisogna considerare che l’ordinazione sacerdotale segnò per lui un radicale cambiamento di vita. Come per fra’ Cristoforo del romanzo “I promessi sposi”, che si votò anima e corpo al servizio di Dio e del prossimo dopo aver ucciso un uomo.

Chiti, da ufficiale di carriera, partecipò dal 1941 a operazioni di guerra sui fronti sloveno-croato, greco e russo. Rientrato in patria, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aderì alla Repubblica Sociale Italiana, ritenendo che quello fosse il suo dovere, e fu impegnato in azioni di contrasto alle formazioni partigiane operanti nella zona di Alba. Dopo la fine del conflitto fu imprigionato in campi di concentramento e sottoposto a procedimento di epurazione davanti ad una commissione militare, che lo scagionò completamente. 

A suo favore deposero anche diversi capi partigiani, i quali testimoniarono che, proprio grazie al suo ruolo nella RSI, Chiti poté salvare centinaia di persone, impedire rastrellamenti e opporsi alla distruzione di interi villaggi. Nel 1944, per evitare la fucilazione a circa 200 partigiani, finse di istituire un corso speciale allo scopo di arruolarli nella sua compagnia di Granatieri, e poi li liberò facendoli tornare alle loro case. Inoltre, il suo nome è stato iscritto nel “Libro dei giusti” della sinagoga di Torino per aver salvato alcune famiglie ebraiche.

Nel marzo del 1948 fu reintegrato nei ranghi dell’Esercito con il grado di capitano dei Granatieri. Quindi proseguì nella carriera militare, fino a diventare generale di brigata.

Da frate cappuccino, fu inviato ad Orvieto, dove nel 1990 mise mano di persona a ricostruire il convento di San Crispino da Viterbo, che era stato semidistrutto, dissacrato e coperto da scritte blasfeme. Con l’aiuto di un gruppo di amici ex granatieri, riuscì a trasformarlo in un’oasi di pace e accoglienza dei poveri. Per più di vent’anni andò in giro per l’Italia a predicare il Vangelo. Morì nel 2004, a 83 anni, in fama di santità. 

Nel maggio 2015 il vescovo di Viterbo, accogliendo una petizione di 2500 fedeli, avviò il processo canonico per la beatificazione del “servo di Dio” padre Chiti, la cui fase diocesana si è conclusa positivamente il 30 marzo 2019 con la trasmissione degli atti alla Congregazione delle cause dei santi in Vaticano. 

Il tribunale ecclesiastico ha raccolto numerose testimonianze orali, scritte e documentali su come Chiti abbia vissuto in maniere eroica le virtù cristiane, sia da militare sia da sacerdote e frate francescano. Mandato in guerra, non considerava come nemici quelli che combattevano dal fronte opposto, aiutava i prigionieri e pregava per i caduti di entrambe le parti che “erano morti come Gesù per le colpe di altri”.

Nicola Bruni

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