Una pipinara di ragazzini, maschi e femmine, figli di ufficiali e sottufficiali dell’Esercito, accompagnati dalle nostre mamme, andavamo ogni giorno alla “colonia” estiva di Fregene, nei primi anni ’50 del secolo scorso. C’erano anche alcuni “imbucati”, tra i quali – nell’estate del 1955 – il quindicenne Gigi Proietti e sua sorella Annamaria, una gioviale ventenne dai capelli rossi, che si aggregavano alla famiglia di un maresciallo.
Venivano a prenderci la mattina presto, a Roma, facendo diversi giri per la città, una decina di vecchi camion militari, coperti da un telone (con finestrelle ai lati e apertura in fondo) e attrezzati con quattro file di sedili di legno: catorci che funzionavano a nafta e si mettevano in moto con una manovella infilata sul davanti del motore.
Io, con mia sorella Mariuccia, mio fratello Antonio e la mamma, ne prendevo uno nei pressi di Porta Metronia; per Gigi e Annamaria ne passava un altro al Tufello. Gli autocarri, guidati da militari di leva, andavano poi a riunirsi in Piazza Irnerio, dove formavano una colonna che imboccava la Via Aurelia procedendo ad una media di 30 km all’ora, scortata da un sergente motociclista. Lungo la strada ci sorpassavano, facendoci “rosicare”, i “signori” pullman militari delle colonie dell’Aeronautica e della Marina, che offrivano un trattamento migliore ai propri utenti.
Benché puzzolente per il fumo di scarico, quel camion era per noi ragazzi la felicità. Durante il viaggio, cantavamo in coro e a squarciagola sempre le solite canzoni: “Quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna…”, “Quando anderemo fora, fora de la Valsugana…”, “La società dei magnaccioni… a noi ce piace de magnà e beve e nun ce piace de lavorà”, “Su quel sasso c’era scritto, c’era scritto su quel sasso…”, “La Svizzera, la Svizzera, la Svizzera… è una nazion”. Oppure giocavamo al Cucuzzaro: “Nell’orto mio ci sono quattro cucuzze. – E perché quattro cucuzze? – E quante sennò? – Due cucuzze. – E perché due cucuzze?…”.
Arrivati a Fregene, in vista del mare, esplodevamo in un grido di gioia se le acque erano calme, perché con il mare mosso non ci permettevano di fare il bagno. La giornata sulla spiaggia cominciava con l’alzabandiera, che vedeva i “pischelli” e le “pischelle” schierati sull’attenti a cantare “Fratelli d’Italia“, e terminava con l’analoga cerimonia dell’ammainabandiera. C’era la ginnastica obbligatoria, prima del bagno. Poi ognuno giocava per conto suo.
A mezzogiorno si andava al refettorio e si faceva la fila per un piatto di “pastasciutta”, mentre il resto del pranzo lo si portava da casa.
Nel pomeriggio si ascoltava musica e si ballava con un juke-box, nella veranda del bar che fungeva da pista da ballo. Ed è lì che Gigi e Annamaria facevano spesso circolo attorno a sé – armati, lui, di chitarra e, lei, di fisarmonica – per suonare a cantare stornellate romane.
“Sentite che ve dice er Sor Capanna, / ch’er millenovecento s’avvicina. / Ritorneremo ai tempi de la manna, / a uffa ce daranno la farina”, attaccava Gigi. “Ma speramo ar novecento / fenirà questo tormento. / Con bon lavoro / rifiorirà ‘sto secolo dell’oro”, proseguiva la sorella.
Faceva parte del repertorio di Gigi anche una serie di equivoche “osterie” romanesche, del tipo: “Osteria numero sette – paraponzi-ponzi-po, / il salame piace a fette – paraponzi-ponzi-po; / alle donne, caso strano, / il salame piace sano”. Dopo ogni “osteria” si ripeteva il ritornello del Sor Capanna: “Daje de tacco, daje de punta, quant’è bbona la sora Assunta!”.
Ma il pezzo forte di Gigi era la storiella di un “regazzino de Porta Metronia” che “le caccole dar naso se levava, in un barattoletto le metteva, e poi cor sugo se le cucinava”. Un giorno quel “regazzino” domandò alla mamma come aveva fatto a nascere e, alla risposta che lo aveva portato la cicogna, ribatté malizioso: “O me canzoni, oppure tu e papà nun sete boni”.
Nicola Bruni