Atene 1964, “Thalassa, thalassa!”

“Aisighias, salute!”. In una delle tante taverne di Plaka, il caratteristico quartiere popolare alle falde dell’Acropoli, si cena all’aperto al chiarore della luna e delle lanterne, e con l’accompagnamento di una chitarra. Non è il solito suonatore ambulante che fa la questua. Il nostro aedo sfoga la sua passione canora pago solo degli applausi di chi lo circonda. E’ un uomo di mezza età, tarchiato, con la faccia arsa dal sole e due spumeggianti caravelle tatuate che navigano sui muscoli delle braccia.

La sua voce rauca invoca il mare – “Thalassa, thalassa!” – mentre le vene della gola si gonfiano al soffiare del canto.

Accanto a lui un vecchietto arzillo con la pipa, mesce continuamente da un boccale nel bicchiere suo e in quello dell’amico: è “retsìna”, un vino bianco, secco, resinato, dal sapore difficilmente accessibile a un palato straniero, ma che in Grecia è la delizia dei beoni.

Di tanto in tanto il chitarrista si interrompe, assaggia un boccone di “fèta”, un formaggio molle, fatto con latte di pecora, molto diffuso qui, e alza il bicchiere rispondendo con un brindisi ai complimenti dei turisti.

Con gli stranieri i greci sono gentilissimi; se chiedi un’informazione ad un tale per la strada, non devi stupirti se quello s’incomoda ad accompagnarti, o vuole offrirti da bere, o addirittura ti invita a fare onore alla sua mensa. Non è cambiato molto dai tempi di Omero: per i discendenti di Nestore e Alcinoo l’ospitalità è tuttora qualcosa di sacro.

Nicola Bruni

Articolo per il settimanale “Il nostro tempo”, 30 agosto 1964

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