La Brexit non ci toglierà Shakespeare

e neppure lo sfizio di parlare in “itanglese”.

Avremo, con la Brexit, una testa coronata in meno nel consesso dei capi di Stato dell’Unione Europea, ma ci consoleremo conservando ben 6 monarchie (Spagna, Svezia, Danimarca, Olanda, Belgio e Lussemburgo) democraticamente mescolate con 21 repubbliche, e aumentando dal 75 al 77,78 per cento il tasso di egualitarismo repubblicano della compagine comunitaria.

    Subiremo certamente delle perdite nel campo degli scambi commerciali, ma in misura inferiore ai danni economici e finanziari che ricadranno sul Regno Unito con l’uscita effettiva dal mercato comune europeo.

    Il Governo di Londra potrà sottrarre ai cittadini dei Paesi rimasti nell’UE una serie di benefici di cui attualmente godono sul suo territorio. In compenso, non farà più pesare all’interno dell’Unione la sua sudditanza agli interessi strategici degli Stati Uniti d’America, che ha rappresentato il maggiore ostacolo alla definizione di una politica estera e di difesa comune.

    Ma quello che il presuntuoso Boris Johnson non potrà togliere al resto dell’Europa sarà il patrimonio europeo della cultura britannica: dai “Racconti di Canterbury” di Chaucer a “L’Utopia” di Tommaso Moro, dal “Romeo e Giulietta” di Shakespeare al “Padre Brown” di Chesterton, solo per citare alcuni degli autori più rappresentativi.

    Così come nessun editto londinese potrà impedire ai nostri governanti di continuare ad esprimersi – gratis – in “itanglese”, usando comunemente anche negli atti ufficiali termini “English” come ticket, budget, welfare, road-map, job, al posto dei corrispondenti vocaboli italiani.

    D’altra parte, nessuno potrà privare la lingua inglese della ricchezzalessicale che le deriva dal latino dell’antica Roma, a cominciare da molti termini della moderna tecnologia (computer, video, server, tutor, forum, media, mobile…) per finire – ironia della sorte – con l’exit della Brexit.

Nicola Bruni