Il mio Paolo VI, santo

Sono stato testimone a Roma, tra il 1963 e il 1978, di molti eventi del pontificato di Paolo VI, un grande papa che ho amato, venerato e ammirato, tanto da chiamare “Paolo” in suo onore nel 1975 il mio primo figlio.

Quella storica mattina del 21 giugno 1963, mentre il Conclave dei cardinali, riunito in Vaticano, stava per eleggere il successore di Giovanni XXIII, io sostenni l’esame di Storia moderna nella facoltà di Lettere della “Sapienza”. Subito dopo, corsi in Piazza Pietro. E vi arrivai in tempo per assistere alla fumata bianca dell’avvenuta elezione che, alle ore 11,22, cominciò a uscire dal comignolo della Cappella Sistina. Un’ora più tardi, partecipai all’acclamazione popolare del nuovo papa Paolo VI, Giovanni Battista Montini, e ricevetti la sua prima benedizione.

Ero in Piazza del Colosseo la sera del 6 gennaio 1964, quando la città di Roma tributò un’accoglienza trionfale a Montini, tornato dal suo viaggio di tre giorni in Terra Santa. Per la prima volta un papa aveva viaggiato in aereo, aveva varcato i confini dell’Europa, aveva visitato il Santo Sepolcro e – cosa più importante – aveva incontrato e abbracciato il patriarca di Costantinopoli, Atenagora, sancendo la riconciliazione dopo nove secoli tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa e dando inizio al dialogo ecumenico per l’unità dei cristiani.

Seguii con passione lo svolgersi del Concilio Vaticano II, riaperto, guidato e portato a compimento da Paolo VI tra il 1963 e il 1965. E apprezzai molto le innovazioni successivamente da lui introdotte nella liturgia, in applicazione delle delibere conciliari: la Messa in italiano (e nelle altre lingue nazionali), non più in latino; l’inversione dell’altare, con il celebrante rivolto all’assemblea anziché al tabernacolo; l’introduzione della Messa vespertina e di quella vespertina prefestiva, valida per il giorno dopo; la riduzione del digiuno eucaristico a un’ora prima, invece che dalla mezzanotte.

Nel 1967 fui coinvolto emotivamente dalla lettura della sua enciclica “Populorum progressio”, che estendeva ai popoli e agli Stati l’imperativo morale di aiutare chi versa in condizioni di bisogno: I popoli della fame – scriveva Paolo VI – interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”.

Ne parlai, come insegnante, ai miei studenti, e per alcuni anni presi parte ad iniziative di solidarietà internazionale promosse dal circolo romano dei Giovani per il Terzo Mondo e dal movimento Mani Tese, che si richiamavano idealmente a quell’enciclica. Con loro, il 9 maggio del 1971 (avevo 29 anni), contribuii a organizzare una Marcia internazionale per lo sviluppo, contro la fame nel mondo, che vide sfilare oltre centomila giovani per le vie di Roma, su un percorso di 25 chilometri, fino a riempire il Circo Massimo. In testa al lunghissimo corteo, innalzavamo uno striscione con lo slogan lanciato da Paolo VI per la Giornata mondiale della pace da lui istituita: “Ogni uomo è mio fratello”.

Nicola Bruni

Nella foto in alto, un’immagine del 1974 di  Paolo VI, che è stato proclamato santo da Papa Francesco il 14 ottobre 2018.