Tunisia 1970, un bicchiere d’acqua sporca

Questa foto mi ritrae travestito da cammelliere del deserto a Gerba, in Tunisia, nell’estate del 1970. Mi fu scattata da Alberto, un ragazzo di Trieste, fresco di laurea in Ingegneria, vacanziere solitario come me, con il quale feci amicizia nell’Hotel Medina che ci ospitava entrambi.

Allora avevo 28 anni, e quella era la prima vacanza che mi potevo concedere dopo due estati trascorse in caserme come militare di leva e un anno scolastico da professore, “beato tra le donne”, all’istituto tecnico femminile Margherita di Savoia, di Roma.

Ero arrivato in aereo a Gerba – l’isola dei mitici mangiatori di loto (il frutto dell’oblio) nella quale sarebbe incappato Ulisse secondo il racconto dell’Odissea – dopo una sosta di mezza giornata a Tunisi. Uno dei primi impegni ai quali assolsi fu quello di rispondere con una cartolina di saluto a quelle mie alunne che affettuosamente me ne avevano mandata una dai rispettivi luoghi di villeggiatura. 

L’albergo, che si affacciava sulla spiaggia, aveva l’aspetto di un tipico villaggio maghrebino, con camere disseminate in casette basse, dipinte di bianco, tra le palme. Le acque del mare erano limpide e trasparenti. Ci rimasi per due settimane. Si mangiava alla tunisina, con molto couscous.
Alberto e io ci tenevamo compagnia a tavola, in alcune escursioni e la sera, quando si ballava all’aperto con le ragazze di una comitiva di turisti tedeschi.

La nostra permanenza in albergo fu un po’ disturbata dall’arrivo chiassoso di un quartetto di italiani “gay” (allora venivano chiamati diversamente), di età intorno ai 40, che cercavano di porsi al centro dell’attenzione dando uno spettacolo buffonesco della loro omosessualità con modi di parlare, di gesticolare, di truccarsi e di vestirsi esageratamente “effeminati” (e tutt’altro che femminili). Il loro capo si faceva chiamare Enrica, camminava ancheggiando e diceva presunte spiritosaggini ad alta voce. Alberto e io, come italiani, ci vergognavamo di quelle pagliacciate e, per non esserne coinvolti, adottammo a modo nostro il motto di Alberto Sordi: “Non facciamoci riconoscere!”.

Un giorno, accettai la proposta di un tassista abusivo di condurmi a visitare un caratteristico villaggio tunisino dei dintorni. In quel luogo, molto pittoresco, fui attorniato come forestiero da un gruppo di curiosi, uomini, donne e bambini. Ero assetato e chiesi loro, per il tramite del tassista, il favore di darmi da bere. Una donna prese una brocca di argilla, versò dell’acqua in un bicchiere e gentilmente me lo porse. Quando stavo per portarlo alla bocca, mi accorsi che in quell’acqua si muovevano piccolissimi frammenti di colore scuro, ma ormai non potevo esimermi dal berne almeno un goccio, senza umiliare chi me lo aveva offerto. Ne bevvi due diti e ringraziai. Ma non bastò, perché il tassista mi suggerì di dare alla donna anche una mancia. E così feci. Poi, per grazia di Dio, non mi venne neppure un mal di pancia.

Nicola Bruni

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