L’incubo infantile del “Cinque maggio”

“Ei fu…”. Avevo dieci anni, indossavo un grembiulino blu, e tremavo per “l’ansia d’un cor indocile”, quando, sotto “il concitato imperio” d’un maestro dai “rai fulminei”, mi toccò recitare il “servo encomio” di Napoleone Bonaparte composto da Alessandro Manzoni.

Quei 108 versi da mandare a memoria, erano stati per me un incubo di “codardo oltraggio”: la notte, abbioccato “sull’eterne pagine”, mi sognavo “come sul capo al naufrago l’onda s’avvolve e pesa”, mentre “lui folgorante in solio” mi sbatteva “dall’uno all’altro mar”.

Ma quando giunse “la procellosa e trepida” ora della prova, “il mio genio tacque”, il “cumulo delle memorie” non “scese” sulla “spoglia immemore”, “dell’uom fatale” non “m’assalse il sovvenir”, e le ultime parole famose m’apparvero “prode remote invan”.

“Così percosso” da “tanto strazio”, “cadde lo spirto anelo”, e io, “mìsero”, “giacqui nella polvere”, “siccome immobile”, “le braccia al sen conserte”.

Poi finalmente, “di mille voci al sonito”, “venne una man dal cielo e in più spirabil aere pietosa mi trasportò”.

Con questa storiella, il professor Nicolaus introdusse una “lezioncina” su Napoleone, “quel gran figlio di… italiani, che razziò l’Italia”.

Nicola Bruni

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Nella fotocomposizione, Nico(laus) bambino ai piedi di Napoleone “folgorante in solio”

(ritratto da François Gérard, Rijksmuseum di Amsterdam).