Una lezione di antiquariato lessicale

Una volta, quando facevo il prof nella scuola media Quinto Ennio di Roma, tenni una lezione di antiquariato lessicale, raccontando la mia infanzia con l’uso di espressioni ormai desuete, e invitai gli alunni a prenderne nota per chiedermi poi eventuali spiegazioni.

Dunque, raccontai che quando avevo 9 anni, nel 1950, i bambini di famiglie benestanti si dicevano nati con la camicia e, molti di loro, nei primi mesi venivano allattati da una balia. Nelle loro case c’era il ben di Dio.

Allora, a scuola io pendevo dalle labbra della Signora Maestra e, in sua assenza, stavo agli ordini del Capoclasse. I voti oscillavano tra zero spaccato e dieci e lode.

Per disegnare usavo un lapis. Per scrivere intingevo il pennino in un calamaio, poi asciugavo l’inchiostro sul foglio con una carta assorbente. Per produrre la copia di un testo, usavo la carta carbone. 

Quando andavo al cesso, sulla porta non trovavo scritto wc ma fesso chi legge. Se qualche compagno mi provocava, gli rispondevo educatamente: vaffallovo!

Gli insegnanti avevano licenza di tirare le orecchie agli alunni somari e di bacchettare gli scostumati e gli screanzati. In fondo alla classe, c’era un famigerato banco degli asini.

Frequentando ragazzi più grandi, per la strada, cominciai ad imparare l’arte di attaccarmi al tram.

In casa, il mio gioco preferito era quello delle lattine. Per accendere la luce giravo l’interruttore. Per ascoltare musica, mettevo in funzione un grammofono. Per incollare un oggetto usavo la colla cervione.

Talvolta, i miei genitori mi mandavano a comprare le ciriole, la gazzosa e la soda nella bottega del droghiere. Per merenda, mangiavo un maritozzo.

Se avevo i pidocchi, mi spruzzavano la testa con il DDT. Se avevo la lingua sporca, mi purgavano – puah! – con olio di ricino. Come ricostituente, mi facevano ingoiare un orrendo cucchiaio di olio di fegato di merluzzo.

A Natale papà mi regalava una piotta, cioè una banconota da 100 lire. La mamma si faceva acconciare i capelli da un coiffeur, d’inverno indossava un paletot e un cappellino con veletta confezionato da una modista, e a fine stagione li portava da lavare in tintoria.

A quel tempo, i treni più lenti erano gli accelerati. Le automobili dei signori erano guidate da chauffeur. Le buste si sigillavano con la ceralacca. I film si proiettavano nei cinematografi. Nei dancing si bevevano tè danzanti.

giovanotti chiamavano le ragazze signorine e, se volevano sposarne una, dovevano chiederne la mano al padre di lei. 

Infine, i preti usavano predicare dal pulpito anziché dall’ambone. Perciò, la gente poteva ancora domandarsi: “Da quale pulpito viene la predica?”. 

Nicola Bruni

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DOPO SCRITTO

Ai tempi in cui Berta filava, quando io ero bambino, il cesso, con rispetto parlando, si chiamava anche ritirata oppure zero zero, perché sulla sua porta negli alberghi veniva posto il numero 00. E ogni volta che io ci andavo, dopo aver compiuto l’atto piccolo o l’atto grande, dovevo tirare la catena.

Penne, pennini, calamaio e quaderno d’antiquariato (metà del XX secolo).
Foto di Nicola Bruni
Quando si “girava” l’interruttore: esemplare in porcellana,
con raccordo per il filo da fissare a parete, degli anni 1940.
Foto di Nicola Bruni.

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