Un anno da prof emigrato

a Strangolagalli, un paesino della Ciociaria

–  E’ stata una bellissima esperienza quella che ho vissuto, da insegnante emigrato nell’anno scolastico 1967/68, a Strangolagalli, un paesino collinare della Ciociaria. Avevo 26 anni quando accettai di trasferirmi da Roma in quel luogo che mi appariva “sperduto”, per espletare il mio primo incarico annuale di insegnamento delle materie letterarie nella scuola media, dopo un biennio di supplenze brevi.

    Abitavo in una tranquilla casetta di campagna con giardinetto, presa in affitto per 10mila lire al mese, dove vivendo da eremita – senza tv né telefono – potei immergermi nello studio per prepararmi a un mostruoso esame di abilitazione all’insegnamento di italiano, storia e geografia, che poi riuscii brillantemente a superare nel maggio del 1968.

    In quel giardinetto fiorivano cespugli di rose, crescevano piante di patate e ogni tanto di notte brillavano le lucciole.

    Facevo colazione al mattino con latte di mucca appena munto e un uovo fresco di gallina che un contadino deponeva sul davanzale di una mia finestra.

    Per il pranzo e la cena ero abbonato a casa di un macellaio, alla cui tavola mangiava con me per farmi compagnia il marito di una figlia, che era maestro.

    Tornavo a Roma, con la mia Fiat 500, nel giorno di riposo settimanale e da sabato pomeriggio a lunedì mattina.

    La piccola scuola media del paese (appena sei classi) costituiva una sezione staccata di un istituto scolastico di Ripi ed era ospitata all’interno del Municipio. I docenti venivano tutti da fuori, tranne quello di religione, che era il parroco, e quello di matematica, un veterinario alle cui cure venivano affidati per scherzo gli allievi “somari”. Uno dei due ausiliari, il “bidello Rossi” – si presentava così – da ragazzo era stato deportato nel lager nazista di Mauthausen e aveva un numero tatuato su un braccio.

    I miei alunni, in maggioranza figli di contadini, erano molto rispettosi ma generalmente non sapevano esprimersi bene in italiano. Per esempio, erano abituati a dire, secondo il dialetto locale: “Ho andato” e “So’ (sono) capito”. Uno dei più bravi tra loro nel pomeriggio conduceva a pascolare una mucca portandosi un libro per studiare. Perciò, io avevo un compito molto impegnativo da svolgere, e cercavo di mettere in pratica i metodi indicati da don Lorenzo Milani nel famoso libro “Lettera a una professoressa”, uscito da poco.

    Un giorno, una ragazzina mi domandò: “Professó, te piaciono l’asparagi?”. Io, incautamente, risposi di sì. L’indomani, fui sommerso da 18 mazzetti di asparagi selvatici che i 18 alunni di quella classe affettuosa erano andati a raccogliere per me nei campi.

Nicola Bruni


Nella foto, sono con un gruppo di miei alunni sulla terrazza del Municipio di Strangolagalli, che ospitava la scuola.