Aldo Moro, lo statista gentile delle soluzioni condivise

Incontrai per la prima volta Aldo Moro il 7 dicembre 1959 a Roma, in un convegno nazionale sui problemi della scuola organizzato dal Movimento Studenti Medi della Democrazia Cristiana. Allora, quel leader politico, che era stato già “padre costituente” nel 1946-47 e poi ministro della Giustizia e della Pubblica Istruzione, aveva 43 anni. 

Quel giorno venne, in qualità di segretario della DC, a dialogare con un centinaio di ragazzi, rappresentanti come me di associazioni studentesche, in una sala del Palazzetto Venezia. Rimasi molto impressionato dalla sua personalità.
 

In seguito, per la mia attività di giornalista, ho avuto numerose altre occasioni di incontrare Moro e di seguirne da vicino le vicende politiche. 

Oggi, lo si ricorda principalmente per la tragica vicenda del suo rapimento e assassinio ad opera di terroristi delle “Brigate Rosse”, avvenuto nel 1978, mentre si tende a sorvolare sul grande contributo da lui dato, come politico democristiano e come uomo di governo, allo sviluppo economico e civile del Paese, a una legislazione sociale d’avanguardia (istruzione obbligatoria e gratuita fino a 14 anni, sistema pensionistico generalizzato, servizio sanitario nazionale, tutela delle lavoratrici madri, nuovo diritto di famiglia, Statuto dei lavoratori, Cassa integrazione, inserimento scolastico dei ragazzi disabili) e a una politica di integrazione europea e di pace. 

Nato a Maglie il 23 settembre 1916, eletto all’Assemblea Costituente nel 1946, come membro del Comitato dei 75 fu tra i principali estensori della Carta costituzionale. Deputato dal 1948 fino alla morte (9 maggio 1978), più volte ministro, cinque volte presidente del Consiglio, segretario politico e presidente della Democrazia Cristiana, prima di essere sequestrato e ucciso era il candidato più accreditato per l’imminente elezione alla carica di presidente della Repubblica. 

Era anche un professore universitario di diritto penale, molto stimato dagli studenti, alla “Sapienza” di Roma. 

Dei suoi discorsi, ricordo il tono generalmente elevato, signorile, spesso appassionato ma sempre rispettoso degli avversari, anche nelle polemiche più aspre, e lo stile cosiddetto “moroteo”, attenuato nella scelta dei vocaboli e ricco di eufemismi per non offendere nessuno. 

Moro aveva un alto senso dello Stato democratico e, perciò, cercava di arrivare, attraverso una paziente opera di mediazione politica, a soluzioni che avessero il consenso più ampio possibile e, comunque, il consenso della maggioranza effettiva degli italiani. 

Nicola Bruni

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